mercoledì 9 dicembre 2009

Biffy Clyro @ Tunnel, Milano 7-12-2009

Dopo le due date da special guests per i Muse, i Biffy Clyro hanno l’opportunità di esibirsi in Italia da protagonisti.
Finalmente, aggiungo io.
La location, il rinnovato Tunnel, è perfetta per i Biffy Clyro. Un palco piccolo e un locale intimo quanto basta per sentirsi davvero vicino alla band.
L’apertura del concerto è affidata ai gallesi People In Planes che, purtroppo per loro, iniziano ad esibirsi davanti a non più di una quarantina di persone. I cinque gallesi, capitanati dal simpatico Gareth Jones, ce la mettono tutta e nonostante lo spazio limitatissimo sul palco e alcuni problemi tecnici riescono ad impressionarmi positivamente, soprattutto con Last Man Standing, singolo tratto dal loro ultimo album, Beyond The Horizon.
Dopo soli venti minuti i People In Planes salutano il pubblico e lasciano il palco ai Biffy Clyro.
Simon Neil e i fratelli Johnston passano attraverso il pubblico per raggiungere lo stage, e dopo un breve saluto in italiano attaccano subito con The Golden Rule, singolo tratto dall’ultimo album, Only Revolutions.
Il volume è altissimo, Simon Neil è nudissimo e come inizio è da strapparsi i capelli, anche perchè come seconda canzone gli scozzesi suonano Living Is A Problem Because Everything Dies, rischiando di far crollare l’edificio.
Alla terza canzone tirano fuori una perla dal loro vecchio repertorio: There’s No Such Thing As A Jaggy Snake, tratta dal loro terzo album, Infinity Land.
I Biffy sembrano in buona forma, i fratelli Johnston sono ritmicamente impeccabili e Simon Neil è…Simon Neil, ovvero un animale da palcoscenico, e oltretutto sembra divertirsi parecchio.
In Who’s Got A Match lascia cantare il ritornello al pubblico, che risponde alla grande.
Il concerto continua ad un ritmo indiavolato fino a Machines, che non mi aspettavo assolutamente e che mi porta quasi alle lacrime per la sua semplice bellezza.
La maggior parte dei pezzi eseguiti dalla band di Ayrshire è tratta dagli ultimi due album, Puzzle e Only Revolutions, anche se vanno a pescare addirittura due brani dal loro Lp d’esordio, Blackened Sky, ovvero Justboy e la meravigliosa 57.
Spogliati dell’orchestra, le canzoni tratte da Only Revolutions rendono addirittura meglio che su disco, rivelando che nonostante le orchestrazioni dell’album i pezzi sono in puro stile Biffy.
Dopo la stupenda ballata God And Satan, ancora un tuffo nel passato, con Glitter And Trauma, poi un finale da lasciare senza fiato con Simon Neil che esclama: “vorremmo suonare ancora, ma questo locale tra poco diventa una discoteca e quindi dobbiamo smettere!”.
The Captain, Semi Mental, Many Of Horror e Mountains vengono eseguite in rapidissima successione per una chiusura davvero con il botto.
I tre ragazzi scozzesi scendono tra il pubblico in tripudio per tornare nel loro tour-bus.
Abbracci, pacche sulle spalle e foto a non finire.
Lungi dalla perfezione artistica e stilistica, i Biffy Clyro quando sono su un palco pensano solo ad una cosa. Suonare il più forte e intenso possibile. Ce ne fossero di band così.
Lunga vita ai Biffy Clyro.

Setlist:
That Golden Rule
Living Is A Problem Because Everything Dies
There’s No Such Thing As A Jaggy Snake
Bubbles
Who’s Got A Match
9/15ths
57
Born On A Horse
Get Fucked Stud
Machines
Now I’m Everyone
Cloud Of Stink
Justboy
Love Has A Diameter
A Whole Child Ago
God And Satan
Glitter And Trauma
The Captain
Semi Mental
Many Of Horror
Mountains


Francesco Ruggeri

sabato 5 dicembre 2009

The Temper Trap - Conditions


Direttamente da Melbourne, surfando sull’hype generato dal singolo Sweet Disposition, in rotazione un po’ ovunque, gli Australiani Temper Trap pubblicano il loro primo lavoro in studio: Conditions.
La band, insieme da pochissimo tempo, è formata da Dougy Mandagi, voce, Lorenzo Sillitto, chitarra, Toby Dundas, batteria e Johnathon Aherne, basso.
Il frontman, Dougy Mandagi, ha dichiarato che le maggiori influenze musicali del gruppo provengono da Radiohead, David Bowie e Arcade Fire, anche se ascoltando l’album nella sua interezza, sembrano più orientati verso un rock alternativo “intelligente”, diciamo alla Coldplay ma con più ritmo.
Molto più ritmo.
Partiamo proprio da Sweet Disposition, che senza dubbio è la traccia trainante dell’intero album. E’ una canzone emozionante, nel vero senso della parola, con un atmosfera davvero intima e avvolgente e non a caso è stata utlilizzata nella colonna sonora del film 500 Giorni Insieme.
Love Lost potrebbe tranquillamente provenire da un disco degli Snow Patrol, con la voce di Dougy Mandagi a farla da padrone sopra ad un orecchiabile motivetto di tastiere.
In Down River si nota di più l’influenza degli Arcade Fire. Infatti compaiono archi, trombe e addirittura uno xilofono, in una canzone decisamente allegra e positiva.
Un po’ in controtendenza la successiva Soldier On, molto più lenta e malinconica.
La traccia comune dell’album è la voce di Dougy Mandagi, che senza fatica si sposta dal falsetto di Sweet Disposition o di Fools ai vocalizzi di Fader, altra traccia musicalmente interessante.
Resurrection mi prende alla sprovvista, con le sue divagazioni elettroniche, e mi stupisce in quanto ad originalità. Una canzone che non avrebbe sfigurato in un album dei Tv On The Radio.
Questo quartetto australiano ha sfornato un album davvero interessante, completo e valido dal punto di vista musicale.
La loro capacità di variare da canzoni che sembrano scritte per i telefilm adolescenziali, a brani vibranti e incalzanti come Science Of Fear, o la conclusiva e strumentale Drum Song, è davvero da applausi.
Il talento è abbondantissimo, hanno già una buona base di fan e un singolo strepitoso per radio.
Insomma, ne sentiremo sicuramente riparlare.

Tracklist:
1. Love Lost
2. Rest
3. Sweet Disposition
4. Down River
5. Soldier On
6. Fader
7. Fools
8. Resurrection
9. Science Of Fear
10. Drum Song


Francesco Ruggeri

The Cribs - Ignore The Ignorant

Ritornano i fratelli Jarman, due anni dopo il successo di “Men’s Needs, Women’s Needs, Whatever”, e lo fanno con un grande cambiamento nella loro formazione: Johnny Marr alla chitarra.
Ebbene si, l’ex Smiths Johnny Marr, dopo l’impegno con i Modest Mouse, ha deciso di lavorare con i The Cribs.
Scioccati?
Inizialmente anch’io, non lo nascondo, soprattutto quando ho letto che Johnny Marr è diventato un membro dei The Cribs a tempo pieno; cioè non solo per questo album, ma anche per il successivo tour e per i prossimi lavori in studio della band proveniente dallo Yorkshire.
Dai Cribs mi aspetto un album veloce e diretto. Motivi orecchiabili e canzoni semplici.
Invece mi accorgo che la mano del vecchio marpione Marr si sente, fin dalla traccia iniziale, We Were Aborted, che è una classica canzone a là Cribs, ma con più corpo, più suono, più “chitarra”.
Il primo singolo, Cheat On Me, è una canzone spudoratamente radiofonica, ma dopo averla ascoltata, provate a non canticchiarne il ritornello.
Arrivando alla traccia numero quattro, City Of Bugs, si riconosce il tentativo dei giovani Jarman di dimostrare di essere cresciuti, e di essere pronti a scrivere canzoni serie. Un testo cupo, una melodia che non ti aspetteresti mai dai Cribs e la sensazione di quello che (facilmente) potrebbero diventare: una band da stadio, cosa che per fortuna non sono ancora.
Riescono meglio le canzoni che si discostano meno dal loro “stile”, come Emasculate Me o Hari Kari, dove la chitarra di Johnny Marr sembra quasi superflua.
Altri brani, come Last Year’s Snow, il secondo singolo We Share The Same Skies e soprattutto Save Your Secrets, sembrano canzoni degli Smiths senza la voce di Morrissey.
Ignore The Ignorant, che da il titolo all’album, parla dell’indignazione dei fratelli Jarman nel vedere il partito di estrema destra BNP vincere le elezioni nella loro Wakefield. Il testo politico, la chitarra incalzante e la rabbia espressa nella sua interezza dalla canzone, la rendono la migliore dell’album.
Una maliconica storia di solitudine travestita da ballata, Stick To Yr Guns, chiude questo Ignore The Ignorant, che è un buon disco, ma riuscito solo a metà.
Non ci sono grossi difetti, la presenza di Johnny Marr si è sentita, ma in maniera adeguata e i Cribs non hanno snaturato troppo il loro sound, come altre band indie hanno (purtroppo) fatto quest’anno.
Però non è il loro miglior album, non ci sono canzoni che vi rimarranno impresse (a parte Cheat On Me), e probabilmente molta gente continuerà ad ascoltare i “vecchi” Cribs di Mirror Kissers.
Me compreso.

Tracklist:
1. We Were Aborted
2. Cheat On Me
3. We Share The Same Skies
4. City Of Bugs
5. Hari Kari
6. Last Year’s Snow
7. Emasculate Me
8. Ignore The Ignorant
9. Save Your Secrets
10. Nothing
11. Victim Of Mass Destruction
12. Stick To Yr Guns


Francesco Ruggeri

lunedì 23 novembre 2009

Biffy Clyro - Only Revolutions


Se c’è una band sul trampolino di lancio in questo periodo, sono sicuramente gli scozzesi Biffy Clyro che, dopo il clamoroso successo d’oltremanica del precedente album Puzzle, tornano alla ribalta con un disco largamente atteso.
Il passo falso, si sa, è sempre in agguato per un gruppo che di colpo si è ritrovato sui palchi dei festival più importanti di Inghilterra, e che ha fatto da spalla per gente come Muse e Queens Of The Stone Age.
Il carismatico Simon Neil, leader della band, aveva avvertito i fan. “Sperimenteremo”.
E i Biffy Clyro, già al quinto lavoro in studio, lo hanno fatto, senza timori, creando melodie più complesse e cercando di amplificarle con l’uso (frequente) dell’orchestra.
La presenza dell’orchestra è palese nella traccia di apertura, The Captain, e soprattutto in Know Your Quarry, forse il brano dove i Biffy hanno osato di più. Pianoforte, archi e ottoni. Tutto a contorno di una canzone sinceramente sorprendente.
Ma chi si aspetta un disco troppo morbido può tranquillamente ricredersi già alla seconda traccia. Infatti That Golden Rule esplode in un riff indiavolato, duro e cattivo, e allo stesso modo Booooom, Blast and Ruin si presenta come la classica canzone Biffy Clyro: veloce, diretta e con la voce di Simon Neil a farla da padrone.
L’album mostra una discreta varietà, passando da singoloni radiofonici, come Mountains, a canzoni come Bubbles, che per cinque minuti punge e martella, grazie anche alla presenza di Josh Homme in veste di secondo chitarrista.
Non mancano le ballate: God & Satan suona quasi come Machines, singolo dal precedente Puzzle, e Many Of Horror riprende i Foo Fighters degli ultimi anni, quelli di Times Like These tanto per intenderci.
In questo Only Revolutions c’è tanto rock, e tanta energia. Ci sono delle novità, ma i fan di vecchia data non ne rimarranno delusi.
Insomma, c’è di tutto. E’ un disco completo, che dimostra come una band possa evolversi senza tradire le proprie radici e la propria anima.
Se vi sono piaciuti su disco, la cosa migliore che potete fare è andarli a vedere dal vivo al più presto, perché i Biffy Clyro live sono un'altra cosa.
Garantisco io.
‘Mon the Biffy.

Tracklist:
1. The Captain
2. That Golden Rule
3. Bubbles
4. God & Satan
5. Born On A Horse
6. Mountains
7. Shock Shock
8. Many Of Horror
9. Booooom, Blast and Ruin
10. Cloud Of Stink
11. Know Your Quarry
12. Whorses


Francesco Ruggeri

domenica 22 novembre 2009

Jamie T - Kings & Queens


Che Jamie Alexander Treays fosse un pargolo promettente lo si era capito dal suo album di debutto, Panic Prevention. Gemme come Sheila, Salvador e, ovviamente, If You Got The Money gli fruttarono interviste, plausi e fama a soli ventun’anni.
Un qualsiasi ventunenne, dopo un successo del genere, si sarebbe (giustamente) adagiato sugli allori. Invece Jamie T si è rinchiuso nello studio con la sua band, i The Pacemakers, e ha sfornato un album addirittura migliore del precedente.
L’irresistibile miscuglio di hip-hop, punk, funk, ska e accento tipicamente londinese che caratterizzava il precedente lavoro, ritorna in maniera addirittura maggiore in questo Kings & Queens.
Il primo singolo, Sticks ‘N’ Stones, trasmette uno tsunami di buonumore e di vitalità, ed è una sorta di inno al divertimento eccessivo. Sulla stessa onda viaggiano anche Chaka Demus, che prende il nome da un musicista e DJ Giamaicano, e la successiva Spider’s Web.
L'impressione generale che rimane ascoltando il disco, è che Jamie T sia in grado di produrre ottima musica senza grande sforzo.
Lo aiuta il fatto di non prendersi troppo sul serio, e la capacità di scrivere dei testi nei quali i suoi coetanei possono riconoscersi, rendendolo una sorta di allegro menestrello della Londra di oggi. Emily’s Heart ne è il perfetto esempio: una malinconica ballata acustica che parla di Emily e del suo cuore spezzato. Qui Jamie mette da parte le strofe hip-hop e canta gentilmente la storia di Emily che, sopraffatta dal dolore, decide di sparare al suo ex ragazzo, uccidendolo.
Jamie T racconta l’adolescenza britannica senza vergogna. Così come Sheila in Panic Prevention parlava di ragazzi al limite, la prima traccia di Kings & Queens, 368, parla di alcool e droga.
Ed è proprio in questi brani che emerge l’aspetto cantautorale del ragazzo di Wimbledon. E’ importante non dimenticarsi infatti, che Jamie T scrive testi e musica di tutte le sue canzoni, cosa che amplifica il valore, già elevato, di tutti i suoi lavori.
Castro Dies, che suona quasi come i Beastie Boys dei tempi d’oro, è la canzone che Mike Skinner dei The Streets ha sempre sognato di saper scrivere, ma non ne è mai stato in grado.
I paragoni con lo stesso leader dei The Streets si sono sprecati in questi anni, ma Jamie T è già anni luce davanti.
Nonostante il modo di porsi trasandato, casinista e sbevazzone, Jamie T spicca nella musica britannica degli ultimi anni non solo per originalità, ma soprattutto per qualità.
Se Panic Prevention era un promettente inizio, questo Kings & Queens è un decisissimo passo avanti.
Vivamente consigliato.

Tracklist:
1. 368
2. Hocus Pocus
3. Sticks ‘N’ Stones
4. The Man’s Machine
5. Emily’s Heart
6. Chaka Demus
7. Spider’s Web
8. Castro Dies
9. Earth Wind & Fire
10. British Intelligence
11. Jilly Armeen


Francesco Ruggeri

Massive Attack - Splitting The Atom Ep

C’è sempre un attesa quasi spasmodica per i nuovi album dei Massive Attack. Da loro ci si aspetta sempre un capolavoro, un disco fenomenale, cosa che con il passare del tempo mette una grandissima pressione sulle spalle di Daddy G e 3D.
E proprio per allentare questa pressione, hanno lanciato sul mercato questo Ep di quattro tracce, che ha la funzione di “anteprima” per il quinto album, la cui uscita era prevista in questi mesi.
Evidentemente il lavoro non è concluso, e la data dell’uscita del fantomatico “Weather Underground” (nome provvisorio) è schizzata alla primavera del prossimo anno.
Fra le quattro tracce di questo Splitting the Atom, spicca sicuramente Pray For Rain, che vede la prestigiosa collaborazione vocale di Tunde Adebimpe dei TV On The Radio, la cui voce, calda e “scura”, scivola lentamente su un tappeto di percussioni e su un pianoforte sinistramente malinconico.
La traccia che da il nome all’Ep, Splitting The Atom, vanta la performance di Horace Andy, ma purtroppo non sono i Massive Attack che siamo abituati ad ascoltare. Ne risulta un brano monotono e privo di idee.
Le ultime due canzoni, Bulletproof Love e Psyche, appaiono in versioni remixate, lasciando però intendere come saranno i brani nell’album. Mentre Bulletproof Love è caratterizzata da una “silenziosa” prova vocale di Guy Garvey degli Elbow, reso quasi irriconoscibile dai filtri vocoder applicati alla sua voce, Psyche è cantata da Martina Topley-Bird, che da un po’ di vita ad un Ep che suona cupo, forse addirittura spento.
Nell’album, oltre a quelle presenti su questo Ep, ci saranno altre collaborazioni, tra cui Damon Albarn e Hope Sandoval.
Come anteprima non è molto incoraggiante, sebbene ci siano alcuni spunti interessanti dai quali si intravedono i Massive Attack che tutti si aspettano. L’anno scorso i loro concittadini Portishead hanno dimostrato che il trip-hop non è morto, e che si è solo evoluto.
Speriamo che 3D e Daddy G se ne accorgano in tempo.

Tracklist:
1. Splitting The Atom
2. Pray For Rain
3. Bulletproof Love (Van Rivers & The Subliminal Kid Remix)
4. Psyche (Flash Treatment)


Francesco Ruggeri

sabato 21 novembre 2009

Mumford & Sons



hanno preso il sopravvento sulle mie playlist e non riesco a togliermeli dalla testa.

martedì 29 settembre 2009

My Morning Jacket - Celebraciòn De La Ciudad Nadal


Nel nostro paese sono sicuramente poco conosciuti, ma oltreoceano, da dove provengono, i My Morning Jacket sono una band di rilievo nazionale.
Il loro leader, Jim James, ha collaborato ad un numero infinito di progetti, tra i quali la colonna sonora di I’m Not There, il film biografico su Bob Dylan, un disco di cover di George Harrison e insieme ad altri artisti del calibro di Conor Oberst dei Bright Eyes ha registrato un album sotto il poco modesto nome di Monsters Of Folk.
Ma questo è un Ep per “celebrare la città natale” del gruppo, ovvero Louisville in Kentucky; infatti le sette canzoni che compongono questo disco sono state registrate tra due concerti tenuti nella cittadina americana.
L’Ep comincia con Evil Urges, tratta dall’omonimo album, pubblicato nel 2008. E’ chiaro fin da subito quale sia il rapporto che i My Morning Jacket abbiano con i concerti, essendo questo il secondo album live pubblicato dalla band dopo Okonokos.
E infatti, Evil Urges, così come le altre sei canzoni dell’album, si trasforma, prendendo corpo e compattezza. E così anche i detrattori devono inchinarsi alla spaventosa bravura di un gruppo che fa della dimensione live la sua vera forza.
Highly Suspicious e Librarian sono altre due tracce tratte dall’ultimo lavoro in studio, mentre le altre canzoni sono meno recenti. Where To Begin fa parte della colonna sonora di Elizabethtown, film di Cameron Crowe, ambientato proprio in Kentucky, mentre Gideon proviene da Z, forse il loro vero capolavoro.
L’Ep (anche se è riduttivo chiamarlo in questo modo, visto che la durata oltrepassa i 47 minuti!) si conclude con la epica Dondante, anche questa tratta da Z, che dai 7 minuti dell’album passa ai 14 dell’esecuzione live, tributando al pubblico un lungo e calorosissimo arrivederci.
E alla fine è proprio questo il significato di questo Ep, ovvero un ringraziamento ai (tanti) fan che li adorano e che li reputano una delle migliori band live del mondo.
Io sono uno di loro.

Tracklist:
1. Evil Urges
2. Highly Suspicious
3. Gideon
4. Where To Begin
5. Librarian
6. Phone Went West
7. Dondante


Francesco Ruggeri

Pearl Jam - Backspacer


E’ con estrema riluttanza e rispetto che ho deciso di recensire il nuovo album dei Pearl Jam.
Il rispetto è ovviamente meritato, essendo i Pearl Jam una delle band più importanti e musicalmente significative degli ultimi venti anni; la riluttanza invece proviene dal fatto che non sono il loro più grande fan, e che ho apprezzato a sprazzi i loro lavori precedenti.
Quindi parto dalle premesse: l’ultimo album, omonimo, aveva risollevato la band da un periodo apatico, che comprende sicuramente uno dei loro dischi meno riusciti, Riot Act.
Era quindi legittimo aspettarsi che Eddie Vedder e soci continuassero sulla stessa (buona) strada, ed in parte è stato così.
Backspacer inizia in una maniera davvero sorprendente, con Gonna See My Friend, un esplosione di energia che vede Eddie Vedder vocalmente in grande spolvero.
Il disco procede con Got Some, pezzo che parla della dipendenza dalla droga, ed il singolo The Fixer. Entrambi seguono il filo conduttore della prima traccia, ovvero la velocità.
Il disco dura infatti solo 37 minuti, il che lo rende il più corto della loro lunga carriera. Ma questa scelta sembra essere azzeccata, in quanto l’intero album ha un ritmo davvero incalzante e davvero coinvolgente.
Il primo sussulto però lo si ha alla traccia numero cinque: Just Breathe sembra uscita dalla (meravigliosa) colonna sonora di Into The Wild, che per chi non lo sapesse è stata composta interamente da Eddie Vedder. Non è assolutamente un pezzo riempitivo e non abbassa il ritmo serrato del disco, anzi, gli da respiro e una compattezza che da parecchio non si sentiva nei lavori in studio della band di Seattle.
Continuando l’ascolto dell’album si ha una bellissima sensazione di rilassatezza e di serenità; infatti Amongst The Waves ha tutti i canoni di una spensierata surf-song e la successiva Unthought Known sconfina negli ampissimi meandri del pop-rock.
Supersonic riporta il ritmo e l’adrenalina a livelli altissimi, per poi rallentare di nuovo con la ballata Speed Of Sound che, a parte gli episodi acustici, è la canzone più lenta dell’album.
Nell’ultima traccia, The End, Eddie Vedder imbraccia di nuovo la sua chitarra acustica e accompagna l’ascoltatore verso la fine di questo disco che, a suo modo, è uno dei migliori che i Pearl Jam abbiano mai fatto, senza forzare paragoni con dischi profondamente diversi, sia musicalmente che come contesto nel quale sono stati scritti, come Ten e Yield.
Dopo anni spesi ad impegnarsi politicamente, lottare per la propria identità, e combattere critiche che comunque non hanno mai intaccato l’integrità della band, i Pearl Jam hanno finalmente confezionato un disco diretto, veloce ed immediato, dando l’impressione che si siano divertiti a scriverlo e a suonarlo almeno quanto io ad ascoltarlo.


Tracklist:
1. Gonna See My Friend
2. Got Some
3. The Fixer
4. Johnny Guitar
5. Just Breathe
6. Amongst The Waves
7. Unthought Known
8. Supersonic
9. Speed Of Sound
10. Force Of Nature
11. The End


Francesco Ruggeri

martedì 1 settembre 2009

Vacation is over. Autumn is coming. Finally.

La migliore canzone con la quale avvicinarsi all'autunno.

sabato 8 agosto 2009

Julian Plenti is...Paul Banks!


I missed you Paul.
Or Julian.
Whatever.
Great song.

venerdì 7 agosto 2009

Death Cab For Cutie - Grapevine Fires

"We bought some wine and some paper cups, near your daughter's school when we picked her up, and drove to a cimitery on a hill.
On a hill.
We watched the plumes paint the sky grey, and she laughed and danced through the field of graves, and there I knew it would be alright.
That everything would be alright."

Assolutamente splendida.

venerdì 24 luglio 2009

The Horrors @ Parklife Festival, Milano 21-07-09

Quando tra i nomi del Parklife Festival è comparso quello dei The Horrors, le probabilità di una mia trasferta a Milano sono diventate pressoché del 100%, visto anche l’esiguo costo del biglietto di ingresso.
Così mentre aspetto che arrivino le 23.30, orario prestabilito per l’inizio dello show degli Horrors, giro per i tre palchi di questo piccola ma riuscitissima manifestazione, conoscendo nuovi gruppi, nuova musica e passando una piacevole serata.
Però per la testa avevo una sola cosa: gli Horrors.
La loro nuova incarnazione ha stupito un po’ tutti.
La rottura con la Universal, la firma per l’ambitissima XL Recordings e la presenza di Geoff Barrow dei Portishead in veste di produttore, ha scatenato in pieno il potenziale di questi cinque (magrissimi) ragazzi di Southend-On-Sea, dando come risultato un disco, Primary Colours, che seppur discostandosi parecchio dallo stile degli esordi, ha proposto uno stile musicale e una creatività artistica davvero ragguardevoli.
Prendo posto in prima fila, proprio davanti al chitarrista Joshua Third (o Von Grimm che dir si voglia..), e gli Horrors salgono sul palco principale, ovviamente con dieci minuti buoni di ritardo.
Attaccano con Mirror’s Image, la prima traccia di Primary Colours, e la prima cosa che salta all’occhio è che in confronto alle loro esibizioni live in supporto al precedente disco, gli Horrors sono cambiati parecchio. A parte lo scambio di posizione tra Spider Webb e Tomethy Furse, che si sono scambiati gli strumenti, si nota di più che Faris "Rotter" Badwan è cambiato. Da frontman energetico ed imprevedibile, è diventato un frontman statico ed "ingessato". L’esatto opposto dell’esuberante Faris della prima "fase" degli Horrors. L’unica cosa che fa oltre a cantare è andare a nascondersi dietro alla batteria e prendere in spalla l’asta del microfono.
Eppure funziona.
L’atteggiamento della band, e dello stesso Faris, è assolutamente adatto al sound malinconico e shoegaze del nuovo strepitoso disco.
E così Joshua Third e compagni, rigorosamente in total black, a parte Faris che sfoggia qualche nota di colore nella camicia, snocciolano canzone dopo canzone il loro nuovo repertorio, nella sua interezza, scartando senza pietà tutti i loro grandi successi, come Count In Fives, Sheena Is A Parasite e Gloves.
Il pubblico, a dir la verità, risente di questa scelta e non sembra molto coinvolto, anche a causa dell’inesistente loquacità della band.
Gli unici sussulti arrivano per Who Can Say, singolo in rotazione, Scarlet Fields, che è a mio avviso un piccolo capolavoro stile Joy Division, e per la conclusiva Sea Within A Sea, che per otto lunghissimi minuti funge da arrivederci, non molto sentito, della band al pubblico Italiano, che forse ha bisogno di tempo per assimilare i "nuovi" Horrors.
C’è chi si lamenta parecchio mentre passo per la folla. Tre quarti d’ora di concerto sono effettivamente pochi, ma per ascoltare dal vivo nella sua interezza un disco come Primary Colours avrei sborsato ben più degli onestissimi dieci euro di ingresso.

Setlist:
- Mirror’s Image
- Three Decades
- Do You Remember
- New Ice Age
- Scarlet Fields
- I Only Think Of You
- I Can’t Control Myself
- Who Can Say
- Primary Colours
- Sea Within A Sea

Francesco Ruggeri

venerdì 17 luglio 2009

Ben Harper & Relentless7 - White Lies For Dark Times


Torna Ben Harper, con un gruppo di accompagnamento nuovo di zecca: i Relentless7.
Messi da parte gli Innocent Criminals, Ben ha messo insieme questo gruppetto di rockettari Texani di Austin, trasferiti a Los Angeles, e ci ha fatto un disco insieme.
E il risultato si sente.
E’ a dir poco palese l’influenza dei nuovi compañeros nel sound di Ben Harper, che in quest’album è decisamente esplosivo.
Più chitarre, più rock, più distorsione, più eccitamento, più velocità. E’ davvero una bella svolta per Ben, considerando che pur essendo tutti dei buoni lavori, gli ultimi album sembravano aver perso il mordente dei primi capolavori assoluti, come Welcome To The Cruel World e The Will To Live.
L’album inizia con Number With No Name, che è una tipica canzone blues di Ben Harper, però la chitarra di Jason Mozersky si fa sentire, alza il suo volume, è lei la vera protagonista.
Così come nel singolo che ha trascinato l’album in vetta alle classifiche in mezzo mondo, Shimmer & Shine, che ha uno stupendo attacco di batteria di Jordan Richardson, e che poi viene accompagnata dal riff irresistibile di chitarra Harper/Mozersky.
Non mancano tuttavia le ballate che lo hanno reso celebre: Skin Thin riporta alla mente la sua anima soul, e la traccia finale, Faithfully Remain, delicatissima canzone che parla di divorzio e di tradimento, spezzerà i cuori delle fanciulle all’ascolto.
I testi, scritti interamente da Ben Harper, parlano di disillusione, rabbia e odio, ma il sound che accompagna queste parole si rivela assolutamente perfetto, bilanciando bene le sensazioni di sconforto e di eccitazione.
Forse con questo gruppo, Ben Harper ha trovato la sua vera realtà, la sua sinergia, la sua identità. Perché se vi è capitato di vederlo dal vivo, saprete bene che in concerto si trasforma e diventa un uragano di energia, di anima e di musica.
Questo disco è riuscito a catturare una piccola parte del Ben Harper travolgente e coinvolgente che possiamo ammirare live, soprattutto grazie ai suoi nuovi compagni di avventura Texani, che con il loro bollente blues da deserto hanno rianimato e reso questo White Lies For Dark Times un grande disco.

Tracklist:
1. Number With No Name
2. Up To You Now
3. Shimmer & Shine
4. Lay There & Hate Me
5. Why You Must Always Dress In Black
6. Skin Thin
7. Fly One Time
8. Keep It Together (So I Can Fall Apart)
9. Boots Like These
10. The Word Suicide
11. Faithfully Remain


http://www2.troublezine.it/reviews/11720/ben-harper-the-relentless7-white-lies-for-dark-times

Francesco Ruggeri

The Dead Weather - Horehound


Tutto quello che Jack White tocca, diventa oro.
Dopo i White Stripes, i Raconteurs, dopo aver prodotto dischi country a Loretta Lynn, dopo aver partecipato alla colonna sonora dell’ultimo film di James Bond, Jack si è dato a questo (ambizioso) progetto: un supergruppo che comprende Alison Mosshart dei The Kills, il socio bassista Jack Lawrence dei Raconteurs e il tastierista-chitarrista-tuttofare dei Queens Of The Stone Age, Dean Fertita.
In questo caso però Jack White abbandona la chitarra e (in teoria) il posto di leader del gruppo, accomodandosi nelle retrovie, alla batteria, lasciando nel ruolo principale Alison Mosshart.
Ma fin dal primo accordo della prima canzone, 60 Feet Tall, si sente la mano del buon vecchio Jack, in un crescendo blues-rock che da subito rende l’idea di come sarà questo Horehound.
La seconda traccia e primo singolo estratto, Hang You From The Heavens, potrebbe passare tranquillamente come una canzone dei White Stripes, con un riff infuocato e ipnotico e White che ci mette del suo alla batteria.
La migliore canzone dell’album, o forse la più rappresentativa del sound che i Dead Weather vogliono esprimere, è il secondo singolo, Treat Me Like Your Mother. Quattro minuti di adrenalina rock’n’roll, con un duetto tra White e la Mosshart, che sembrano sfidarsi a duello per la leadership del gruppo.
Ascoltando l’album si ha la sensazione di attraversare tutte le sfaccettature del blues, del rock e delle sue radici, come in Rocking Horse, sporca e desertica, oppure in New Pony, cover di Bob Dylan, che viene stravolta fino a suonare come i Led Zeppelin. In Cut Like A Buffalo ritorna l’organetto Hammond tanto caro a Jack White, in una canzone curiosamente funkeggiante, mentre la strumentale 3 Birds sembra la colonna sonora di un episodio di Starsky & Hutch.
C’è varietà, c’è qualità, c’è sano rock’n’roll in questo disco e, soprattutto, ci sono Jack White e il suo spropositato talento.
L’album si conclude con la lenta e fumosa Will There Be Enough Water, apoteosi dell’anima Blues di Mr. White, un mostro sacro del Rock di oggi.

Tracklist:
1. 60 Feet Tall
2. Hang You From The Heavens
3. I Cut Like A Buffalo
4. So Far From Your Weapon
5. Treat Me Like Your Mother
6. Rocking Horse
7. New Pony
8. Bone House
9. 3 Birds
10. No Hassle Night
11. Will There Be Enough Water

Francesco Ruggeri

venerdì 3 luglio 2009

Bon Iver - Blood Bank Ep



Ritorna Justin Vernon, sotto il suo pseudonimo Bon Iver, dopo il concreto successo del piccolo capolavoro che è For Emma, Forever Ago, da molti riconosciuto tra i migliori album del 2008.
Così come For Emma, Forever Ago rappresentava l’inverno, sia metereologico che dei sentimenti, Blood Bank segna l’inizio della primavera, e l’attesa per l’estate.
Infatti, in Beach Baby, il buon Justin Vernon, inneggia ad un amore nato sulla sabbia, strimpellando dolcemente la sua chitarra acustica, lasciando immaginare un idilliaco tramonto.
Mentre l’iniziale Blood Bank doveva far parte dell’album precedente, le altre tre tracce sono state registrate appositamente per questo Ep, che seppur di solo quattro pezzi, riesce a ricreare le malinconiche e coinvolgenti atmosfere di For Emma, Forever Ago.
Il freddo dell’inverno del Vermont viene sostituito da un tepore, un calore anche vocale davvero ragguardevole, e si inneggia all’amore, addirittura alla procreazione, come nel terzo brano, Babys.
I diciassette minuti scarsi di questo stupendo Ep si concludono sulle note di Woods, canzone che ci riporta forse alla realtà. Una ballata a cappella, con la voce di Bon Iver che ulula in falsetto grazie al vocoder, fino a dare l’impressione di essere davvero nei boschi, ed essere, purtroppo, di nuovo soli.

Tracklist:
1. Blood Bank
2. Beach Baby
3. Babys
4. Woods

http://www2.troublezine.it/reviews/11727/bon-iver-blood-bank-ep

Francesco Ruggeri

The Enemy - Music For The People


Dev’essere davvero difficile per i giornalisti di NME riuscire ad inventarsi ogni trimestre la “next big thing”.
Un annetto e mezzo fa fu il turno dei The Enemy, tre semi-adolescenti provenienti da quel buco grigio e fumoso che è Coventry, in Inghilterra.
Il loro disco di debutto, We’ll Live And Die In These Towns, era buono, forse sopravvalutato, ma con i testi impegnati e i riff di chitarra di Tom Clark, aveva qualche ottimo spunto.
Come è lecito, ci si aspettava un salto un avanti nella qualità in questo Music For The People, ma i risultati non sono quelli che tutti si aspettavano.
La prima traccia, Elephant Song ha un inizio che mi ricorda immediatamente D’you Know What I Mean degli Oasis, e in questo caso il disco sembra partire bene, deciso e ben impostato.
La seconda traccia, No Time For Tears, sembra decisamente pretenziosa, ma ha un giro di basso potente e un ritornello orecchiabile, nel “tipico” stile The Enemy.
Sembra procedere bene questo disco, dopodiché parte un trittico di pezzi che mi ha fatto venire voglia di spegnere lo stereo e buttare il cd.
51st State sembra una canzone dell’inizio degli anni ’90, con un triste assolo di chitarra; la successiva Sing When You’re In Love è paradossalmente piatta e senza emozione; infine Last Goodbye, canzone che parla di suicidio, ad un certo punto suona come una bruttissima copia di Bitter Sweet Symphony dei Verve.
Con il passare delle tracce la sensazione che si prova, è decisamente fastidiosa. Sembra di aver già sentito tutto, nessuna canzone di distingue per originalità e, anzi, ci si annoia pure.
Il clou dell’album arriva con il brano numero otto, ovvero Don’t Break The Tape. O, se preferite, London Calling dei The Clash. Travestita ad arte, ma è assolutamente la stessa canzone.
E come ciliegina finale, nell’ultimo pezzo Silver Spoon, dopo parecchi minuti di silenzio parte una ballata al piano che, tanto per cambiare, mi ricorda un'altra canzone, ovvero Let It Be dei Beatles.
Sorge il dubbio che Tom Clark e soci si siano lasciati influenzare troppo da altre band, perdendo la loro identità e finendo col non avere un proprio sound caratteristico. E nello spietatissimo mondo dell’indie di oggi, suona come una condanna a morte.

Tracklist:

1. Elephant Song
2. No Time For Tears
3. 51st State
4. Sing When You’re In Love
5. Last Goodbye
6. Nation Of Checkout Girls
7. Be Somebody
8. Don’t Break The Red Tape
9. Keep Losing
10. Silver Spoon


Francesco Ruggeri

mercoledì 1 luglio 2009

The Black Angels - Directions To See A Ghost


Esistono due possibili reazioni all’ascolto del secondo album dei The Black Angels: se siete amanti dalla cultura anni ’70, ex hippy e vi stonate di canne, allora li apprezzerete. Eccome.
Se siete conservatori, anti-narco e avete sempre odiato quegli individui loschi, con i capelli lunghi e unti, statene alla larga.
Directions To See A Ghost è la seconda prova in studio della band originaria di Austin, Texas.
E, come nel precedente Passover, l’esperienza di ascolto è simile all’assunzione di un allucinogeno a vostra discrezione.
Non nascondono le loro influenze i The Black Angels, si va dai Velvet Underground, dai quali hanno ricavato il logo della band, ovvero il volto di Nico, fino ai loro “compaesani” 13th Floor Elevators, autentiche icone negli anni ’60 del genere psichedelico.
In effetti non c’è altro modo per descrivere le intricate melodie riverberate dei Texani, che rientrano in una ristretta cerchia di artisti che segue le orme di maestri come l’indimenticabile Syd Barret.
Noi della generazione I-Pod, stiamo sempre a chiederci “chissà com’era un trip di acido ascoltando i Pink Floyd?”..Qui ci si avvicina parecchio, e senza l’uso di nessuna sostanza illegale.
In Science Killer si sente anche l’influenza del deserto, che circonda l’intero stato di provenienza della band.
L’effetto di brani come You On The Run, o 18 Years, è una strana rilassatezza, dovuta certamente all’incedere della batteria, quasi fosse lei stessa a dettare i nostri battiti cardiaci, provocando emozioni di certo difficilmente provate prima.
I testi inneggiano alla paranoia, alla perdizione e a ossessioni compulsive, adagiandosi perfettamente sul tappeto sonoro dei brani.
C’è purtroppo poca varietà nelle canzoni di quest’album, che però va preso per la sua interezza, e non giudicato pezzo per pezzo.
Forse il brano che lo rappresenta di più è Deer-Ree-Shee, sorpendente e strana canzone, addirittura con la presenza di un sitar Indiano, strumento che genera un suono tipicamente acido e distintivo, e che dona alla canzone un andamento altalenante e ipnotico.
Permeato di psichedelia degna dei migliori/peggiori anni ’70, Directions To See A Ghost è un album concettuale, che pur non distinguendosi particolarmente dal suo predecessore, continua coerentemente il lavoro espresso negli anni dalla band texana, ma che piuttosto sembra un filo fuori posto, anzi, fuori tempo.


Tracklist:
1. You On The Run
2. Doves
3. Science Killer
4. Mission District
5. 18 Years
6. Deer-Ree-Shee
7. Never/Ever
8. Vikings
9. You In Color
10. The Return
11. Snake In The Grass

Francesco Ruggeri

martedì 16 giugno 2009

Silversun Pickups - Swoon


Il nuovo album dei californiani Silversun Pickups inizia con qualche secondo di silenzio, quasi a rappresentare l'attesa (3 anni!) per poter ascoltare il loro nuovo materiale, dopodiché esplode la chitarra distorta di Brian Aubert, nell’iniziale There’s No Secrets This Year.
Traccia che inconfondibilmente "suona" come la classica canzone dei SSPU, ovvero un ritmo batteria simile ad una mitragliatrice di Chris Guanlao, chitarra over-distorta e bassi corposi di Nikki Monninger.
Ritornano così come ci avevano lasciato, nel 2006, con l'ottimo Carnavas, ovvero con canzoni innegabilmente orecchiabili, sicuramente lunghe e forse un pò troppo somiglianti tra di loro.
In effetti la sensazione più comune tra le 10 tracce che compongono l'album, è il deja-vù, sia per l'effettiva somiglianza tra i vari brani, sia perchè dall'album precedente sembra non sia cambiato praticamente niente.
Il miscuglio shoegaze-grunge dei Silversun Pickups, ispirato da gruppi come Smashing Pumpkins, Nirvana e Foo Fighters, aveva impressionato buona parte del mondo Indie, sopratutto grazie a "Lazy Eye", singolo che ha riscosso successo commerciale e radiofonico.
Forse il problema di questo Swoon è che non c'è una Lazy Eye, non ci sono brani che escono dal mucchio e che si distinguono come aveva fatto Lazy Eye per l'album precedente.
Forse le uniche eccezioni sono il primo singolo, Panic Switch, che presenta uno stupendo riff di basso indiavolato e martellante, e la conclusiva Surrounded che ripropone le accelerazioni e rallentamenti improvvisi di ritmo che hanno reso celebre Aubert e compagni.
Quando cercano di abbassare il volume, come in Draining e Catch & Release, sembrano trattenersi troppo, e il tono di voce di Brian Aubert non aiuta, rimanendo troppo spesso monocorde e piatto anche quando la canzone sale di intensità.
Tra le poche novità dell'album, che vede ancora Dave Cooley in veste di produttore, c'è un uso più accentuato dell'editing sonoro e degli effetti da parte del quarto componente del gruppo, Joe Lester, che in The Royal We fa sentire decisamente la sua mano.
Non ha peccati particolari questo album, se lo si considera indipendentemente dai lavori precedenti è un discreto disco..ma chi si aspettava un grande salto in avanti dovrà ricredersi, perchè forse i Silversun Pickups hanno avuto paura dell'enorme ostacolo chiamato "secondo album", e hanno deciso di giocare sulla difensiva.
In ogni caso rimane la speranza che possano crescere musicalmente, perchè di talento ce n'è, e in abbondanza.


Tracklist:
1. There's No Secrets This Year
2. The Royal We
3. Growing Old Is Getting Old
4. It's Nice To Know You Work Alone
5. Panic Switch
6. Draining
7. Sort Of
8. Substitution
9. Catch & Release
10. Surrounded

Francesco Ruggeri

http://www2.troublezine.it/reviews/11496/silversun-pickups-swoon

Kasabian - West Ryder Pauper Lunatic Asylum


La prima parola che mi passa per la testa ascoltando l’ultima fatica dei Kasabian è acido.
Acido perché sicuramente per scrivere pezzi come Vlad The Impaler e Fire, Tom Meighan e Sergio Pizzorno devono averne consumate tonnellate.
Ma acido anche perché in generale il mood dell’album si discosta dai precedenti capitoli discografici dei ragazzi di Leicester.
Lanciato qualche mese fa dal download gratuito di Vlad The Impaler, West Ryder Pauper Lunatic Asylum è un album che dimostra un evoluzione artistica ed una maturità compositiva davvero ragguardevoli.
Non mancano le tracce “anthem”, alle quali i Kasabian ci avevano abituati con i precedenti lavori in studio, infatti Underdog e Fire ricalcano questa tipologia: riff potenti e testi che entrano subito in circolo.
Ma è in altro che i Kasabian stupiscono. Durante l’intero album c’è una senso di continuità psichedelica, il ritmo si alza e si abbassa in continuazione, come se volessero farci “viaggiare” all’interno delle 12 tracce che lo compongono.
Come in un trip estremamente reale e vivido, le emozioni si alternano, spingendo adrenalina nelle vene durante l’infettiva e velocissima Fast Fuse, o rilassando i muscoli e accompagnando l’ascoltatore come in Thick As Thieves, raggiungendo il picco di coinvolgimento tra Secret Alphabet e Fire.
I Kasabian sperimentano, anche grazie all’intervento del super produttore Dan The Automator, e ampiano il loro sound, passando dal simil-Kraftwerk di Swarfiga, all’acustico con ritmo Hip-Hop di Take Aim, cantata da Sergio Pizzorno.
E’ interessante notare come i Kasabian siano riusciti a rinnovare e ad arricchire il proprio sound, senza dover sproloquiare suoni elettronici, come troppe band hanno preso a fare ultimamente. La prova di questo rinnovamento è West Ryder Silver Bullet, che vede la partecipazione di Rosario Dawson all’interno di un brano inquietante e polveroso, che sembra uscire da una colonna sonora western.
Forse ad alcuni fan del gruppo questo “cambiamento” sembrerà troppo ricercato, quasi artificiale, ma l’anima del gruppo e la sua innata facilità ad esprimere ottima musica sono intatte. C’è sempre l’ispirazione-ammirazione, decisamente non velata, verso gli Oasis, e la dissacrante arroganza che li ha caratterizzati fin dal loro strepitoso debutto, nel 2005.
Happiness, una ballata malinconica cantata anch’essa da Pizzorno, conclude l’album, che segna con passo deciso l’ingresso dei Kasabian tra quelli che contano davvero nella musica contemporanea.


Tracklist:
1. Underdog
2. Where Did All The Love Go?
3. Swarfiga
4. Fast Fuse
5. Take Aim
6. Thick As Thieves
7. West Ryder Silver Bullet
8. Vlad The Impaler
9. Ladies And Gentlemen (Roll The Dice)
10. Secret Alphabets
11. Fire
12. Happiness


Francesco Ruggeri

mercoledì 13 maggio 2009

Yeah Yeah Yeahs @ Magazzini Generali, Milano 4-5-09

Magazzini Generali completamente sold out per l’unica data italiana del tour europeo della band newyorchese, capitanata dalla vulcanica e sempre sorprendente Karen O.
L’attesa è concitata e spasmodica; nessuno, compreso me, ha voglia di lasciar passare gente arrivata tardi. Per colpa di Milano e del suo traffico mi perdo gli HTRK, gruppo spalla che a sentire qualche commento non deve aver lasciato una buona impressione.
Poco importa, non è per loro tutti sono venuti qui stasera.
Verso un quarto alle dieci le luci si spengono e la musica di sottofondo si interrompe, ed un boato impressionante accoglie Nick Zinner e Brian Chase sul palco.
Un gigantesco occhio gonfiabile volge il suo finto sguardo verso il pubblico, e nel buio dei Magazzini una figura femminile con una maschera rosa che lampeggia rosso fuoco appare davanti alla folla adorante. Gli Yeah Yeah Yeahs sono arrivati e lo fanno subito notare, cominciando lo show con Heads Will Roll, e un esplosione di Y rosse dal palco, quasi a voler dire che stasera ci sarà da ballare e soprattutto da sudare.
Karen O inizia il suo particolare e personalissimo spettacolo itinerante, muovendosi senza sosta sul palco, incitando il pubblico e cantando a squarciagola, imitata alla perfezione dal pubblico.
Alla sesta canzone gli YYY’s danno una sferzata al loro concerto, proponendo una superhit come Gold Lion, alla quale la folla risponde urlando tutta la canzone insieme a Karen O.
Non c’è un attimo di pausa, ed infatti subito dopo suonano Cheated Hearts, altro super pezzo tratto dal loro acclamatissimo secondo disco, Show Your Bones.
La temperatura all’interno del locale è altissima, tutti saltano, tutti cantano, molti pogano e tutti sono già col sorriso sulle labbra.
Gli YYY’s approfittano del calore del momento per suonare tre pezzi consecutivi tratti dal loro ultimo lavoro in studio, It’s Blitz. Soft Shock, Skeletons e Zero vengono suonati in rapidissima successione, lasciando il pubblico senza fiato, soprattutto durante Skeletons, durante il quale una luna piena ha sostituito l’occhio gigante e ogni maschio presente si è innamorato perdutamente di Karen O.
La prova dei nuovi pezzi è ampiamente superata, anche perché Zero lancia una scarica impressionante di adrenalina tra la folla, che risponde esageratamente, con addirittura tentativi di body surfing nel bel mezzo del locale.
Gli YYY’s eseguono i pezzi ordinatamente, con Brian Chase che alla batteria tiene tutti in riga e non sbaglia una battuta, mentre Nick Zinner, immancabilmente vestito di nero, fa il suo dovere senza sbavature con la sua classica Stratocaster nero-bianca.
Con Turn Into si congedano dal palco, salvo poi ritornare praticamente subito per l’encore, dove suonano i tre pezzi più amati dai fan, Y-Control, Maps e Date With A Night, tutti e tre casualmente tratti dal loro primo album, Fever To Tell.
Karen si ripresenta sul palco con un incredibile kimono bianco con fantasie varie e gli YYY rischiano seriamente di buttare giù il tetto con una esecuzione devastante di Y-Control, seguita da una soprendente versione acustica della loro “love song”, Maps.
Chiudono il concerto con Date With a Night, che tira fuori l’ultima briciola di energia dal pubblico presente che in delirio li saluta e li acclama a gran voce.
Il concerto è finito e nessuno si è accorto che è durato poco più di un’ora e dieci minuti.
Ma l’adrenalina, il divertimento, il sudore e la felicità che gli YYY’s hanno sprigionato sul palco e donato ai loro fan sono stati impagabili.


Setlist:
Heads Will Roll
Black Tongue
Phenomena
Rockers To Swallow
Dull Life
Gold Lion
Cheated Hearts
Soft Shock
Skeletons
Zero
Pin
Turn Into

Y-Control
Maps (acustica)
Date With A Night

Francesco Ruggeri

http://www2.troublezine.it/reports/11213/04052009-yeah-yeah-yeahs-magazzini-generali-milano

Phoenix - Wolfgang Amadeus Phoenix


Ritornano i Phoenix, tre anni dopo l’ottimo It’s Never Been Like That, e lo fanno in grande stile.
I Phoenix si sono sempre distinti per il loro mix tra pop francese e rock alternativo (chi non si ricorda il super tormentone If I Ever Feel Better?), ma questa volta hanno aggiunto qualcosa in più, ovvero più suoni elettronici e più ritmi “dance”.
L’esempio di questa evoluzione del loro sound è 1901, traccia resa disponibile da scaricare direttamente dal loro sito e che ha ricevuto consensi unanimi, che si apre con potenti accordi synth-tastiere, accompagnati da una chitarra simil-Strokes, e che successivamente si snoda per 3 minuti e 18 secondi di adrenalinica eccitazione.
C’è da stupirsi che non sia stato proprio 1901 il primo singolo estratto, scelta che comunque è caduta su Lisztomania, più rilassata e meno electro, ma non per questo meno orecchiabile e sofisticata all’ascolto. Strofe sentimentali quanto basta, l’accento tremendamente cool di Thomas Mars e il resto ce lo mettono i (fratelli) chitarristi Christian Mazzalai e Laurent Brancowitz, con arpeggi, accordi puliti e netti. Ne esce così una canzone al limite della perfezione artistica.
Un'altra traccia degna di essere ascoltata ripetutamente è Fences, con tastiere di sottofondo e la voce di Thomas Mars ovattata e languida, che sembra uscita da un telefilm anni ’70.
Se c’è un gruppo al quale i Phoenix assomigliano sono sicuramente i The Strokes, ed è chiaro in canzoni come Lasso e la conclusiva Armistice, che ricordano i precedenti lavori della band proveniente da Versailles, da United a Alphabetical.
In altri momenti invece è palese una linea di congiunzione tra loro e gli Air, con i quali hanno lavorato spesso e volentieri, fin dal remix di Kelly Watch the Stars del 1998. La leggerezza e l’eleganza dell’electro francese da un tocco di sofisticatezza alle canzoni dei Phoenix, senza prenderne il sopravvento e, soprattutto, senza eccedere nei toni.
In Girlfriend, ma anche in 1901, i Phoenix dimostrano di fare buon uso dell’elettronica, senza esagerare, mantenendo sempre una linea melodica comune tra tutte le tracce dell’album.
Il mood dell’album è comunque positivo, solare e coinvolgente, è musica sulla quale è facile muoversi e mettersi a ballare, che ti lascia sorridente e piacevolmente rilassato.
Forse è la volta buona per i Phoenix, che dopo tre album buoni ma non eccelsi, hanno confezionato un disco solido e valido, senza strafare, con delle ottime tracce che trainano l’intero disco, pur rimanendo nei loro tratti distintivi, ovvero miscugliare rock e pop, vestirsi bene e vivere a Versailles.
Très chic.

Tracklist:
1.Lisztomania
2.1901
3.Fences
4.Love Like a Sunset Pt.1
5.Love Like a Sunset Pt.2
6.Lasso
7.Rome
8.Countdown (Sick for the Big Sun)
9.Girlfriend
10.Armistice

Francesco Ruggeri

http://www2.troublezine.it/reviews/11156/phoenix-wolfgang-amadeus-phoenix

The Boxer Rebellion - Union


Quando si dice che la pazienza paga sempre.
Più di un anno e mezzo fa, mi capitò di ascoltare una traccia demo, di un gruppo chiamato The Boxer Rebellion.
Un gruppo nato a Londra e formato da due inglesi, il batterista Piers Hewitt e il bassista Adam Harrison, un americano trapiantato in Inghilterra, il cantante Nathan Nicholson, e un australiano, il chitarrista Todd Howe.
La traccia si chiamava Evacuate, ed era molto buona. Anzi, ottima.
E da quel momento cominciò l'attesa, per un nuovo album, dopo l'esordio di Exits del 2005.
Un’attesa durata parecchio, a causa dell’abbandono della band della loro precedente etichetta discografica, la Mercury, e dei seri problemi di salute che colpirono il leader della band, Nathan Nicholson, durante il loro tour in supporto ai The Killers, nel 2005.
Finalmente, verso la fine dello scorso anno, annunciarono il rilascio, solo via I-tunes, del loro nuovo album, Union. Solo via I-tunes perchè erano senza un etichetta discografica e quindi solo grazie ad un contratto speciale con la Apple, sono riusciti a distribuire il loro album ondine, che comunque ha scalato le classifiche di vendita americane e inglesi di I-tunes.
Ora, anche grazie ad una release fisica su cd, i The Boxer Rebellion hanno ricevuto la giusta attenzione ed il giusto credito per un cd che tutto sommato è decisamente buono.
Trascinato dal singolo Evacuate, che si basa su un riff infuocato e una batteria insistente, ma anche da altre ottime tracce, come la iniziale Flashing Red Light Means Go, Union è un album che cerca di continuare il buono, ed ambizioso, lavoro già riscontrato nel precedente Exits.
Il primo paragone che mi viene in mente per la loro musica, sono gli Interpol. Sia per le liriche di Nathan Nicholson, che per gli incroci di chitarra tra lo stesso Nicholson e Todd Howe. Ma forse qui c'è più "anima", più respiro, come è chiaro in tracce come Soviets e The Gospel Of Goro Adachi, dove ricordano piuttosto gli Editors o, come ricercatezza di suoni elettronici, addirittura i Radiohead.
Dimostrano di avere una buona varietà di idee, come ad esempio in Spitting Fire, che sembra uscita dal primo album dei Coldplay, come immediatezza e riff di chitarre, o, come nella conclusiva Silent Movie, rallentano e riflettono, la voce di Nicholson si fa più dolce e la band sembra salutare e dire arrivederci all'ascoltatore.
Non sarà un capolavoro, ma è decisamente un buon album.
Non li proietterà tra le stelle della musica indie, ma di certo si sono fatti un nome con questo Union, che sembra essere perfettamente adatto per il letargico inizio di questa primavera.

Tracklist:
1. Flashing Red Light Means Go
2. Move On
3. Evacuate
4. Soviets
5. Spitting Fire
6. Misplaced
7. The Gospel Of Goro Adachi
8. These Walls Are Thin
9. Forces
10. Semi Automatic
11. Silent Movie

Francesco Ruggeri

http://www2.troublezine.it/reviews/10858/the-boxer-rebellion-union

Fleet Foxes @ La Cigale, Paris 25-02-09

Dei Fleet Foxes ormai se ne parla da un’anno.
Alla fine del 2008, il loro album di debutto omonimo era in testa alla maggior parte delle classifiche dei migliori album dell’anno passato.
Il segreto del loro successo sta nel mix delicato e vario tra vari generi musicali, tra i quali il folk americano, il rock classico, ma anche il country e, perché no, il gospel.
Spesso è stato usato addirittura il termine “pop barocco”, per i loro richiami a musica e composizioni quasi obsolete.
Niente che non si sia mai sentito, o che non suoni come qualcos’altro.
Però…
Però bisogna vederli dal vivo per poterli giudicare.
Perché i loro live non sembrano dei normali concerti, ma piuttosto un vero e proprio spettacolo teatrale e fiabesco.
La loro musica sembra fatta apposta come colonna sonora di una storia ben raccontata, fatta di personaggi come Oliver James, o come il “Michael” di White Winter Hymnal.
Iniziano il loro concerto con le canzoni dedicate al “sole”, ovvero Sun Giant e Sun It Rises, dopo le quali seguono 6 minuti buoni di applausi scroscianti. E siamo solo all’inizio.
Negli intermezzi tra una canzone e l’altra, scherzano, riaccordano gli strumenti, chiacchierano con il pubblico; Robin Pecknold chiede alle ragazze della prima fila dove può trovare un buon ristorante vegano. E il batterista gli fa notare di essere un po’ troppo in forma per essere un vero vegano.
Si divertono, sono a proprio agio, credo sappiano di essere già delle star del panorama indie.
Eppure non si atteggiano, anzi danno il massimo, vogliono impressionare il pubblico. Soprattutto Robin Pecknold, che spesso e volentieri è da solo per l’esecuzione di alcuni brani e addirittura si esibisce senza microfono e senza amplificazione della chitarra in un classico della tradizione folk popolare americana, Katie Cruel , lasciando l’intero locale in delirio.
Impeccabili le esecuzioni di Mykonos, splendida canzone tratta dal loro Ep Sun Giant, e di altre favorite del pubblico come He Doesn’t Know Why e English House.
Nell’ora e mezza di concerto snocciolano quasi tutte le canzoni incluse nei due lavori daloro pubblicati, aggiungendo la chicca della cover di Duncan Browne, My Only Son, dimostrandosi decisamente ispirati e con parecchia voglia di suonare.
Le armonie e gli intrecci vocali che producono dal vivo sono addirittura più ricchi e suggestivi di quanto non siano sull’album. Non steccano praticamente mai una nota, mai neanche di un semitono, neanche quando è già da più di un ora che si esibiscono. E oltremodo tutti e 5 i componenti del gruppo cantano, o perlomeno partecipano ai cori.
Chiudono con Blue Ridge Mountains, altra canzone amata dai fan, dopodiché lasciano il palco sommersi dagli applausi e dalle urla “bravò” del pubblico francese.
Tutti vanno a casa soddisfatti, e io, per una sera, mi dimentico che la Ryanair mi ha perso il bagaglio.
Grazie ai Fleet Foxes.

SETLIST
Sun Giant
Sun It Rises
Drops In The River
English House
White Winter Hymnal
Ragged Wood
Your Protector
My Only Son - Pecknold solo
Oliver James - Pecknold solo
Quiet Houses
He Doesn't Know Why
Mykonos

Katie Cruel - Pecknold solo
Tiger Mountain Peasant Song - Pecknold solo
Blue Ridge Mountains

Francesco Ruggeri

http://www2.troublezine.it/reports/10856/25022009-fleet-foxes-la-cigale-parigi

martedì 12 maggio 2009

Da tenere d'occhio..



ho appena visto il video su Brand:New e mi hanno colpito.
se ne riparlerà.

giovedì 22 gennaio 2009

I feel part of The Boxer Rebellion


Se avete un account I-Tunes, scaricate il cd dei The Boxer Rebellion, Union.
Se non l'avete, scaricatelo con E-Mule o con quello che avete.
E' un album stupendo.
Questo è il primo singolo, Evacuate.
Non ve ne pentirete, parola mia.

Peace.