giovedì 27 maggio 2010

A summer song.



How cool is this?

The National - High Violet



I The National hanno raggiunto con il loro precedente album, Boxer, un successo inaspettato ma assolutamente meritato.
Forti di quel successo e del loro innegabile talento nel creare canzoni pregne di malinconica emozione, questi cinque ragazzi del Cincinnati, ma adottati da New York, hanno pubblicato il largamente atteso High Violet.
Ma come si fa a dare un seguito ad un album che la maggior parte della stampa musicale ha definito perfetto e che il pubblico ha (giustamente) premiato con tanta ammirazione?
Ecco come: rinchiudendosi in studio per rielaborare le fortunate atmosfere di Boxer ma uscendone con un suono ancora più polveroso, con testi più introspettivi e con canzoni cariche di romanticismo.
Terrible Love, il primo pezzo di High Violet, inizia con le chitarre dei fratelli Dessner in primo piano, ma è la voce profonda di Matt Berninger a dare una scossa di adrenalina. Il modo in cui narra le storie dei propri personaggi, come ne sottolinea le emozioni, è davvero unico.
Non ha una voce cristallina, ma è come si interpreta una canzone che spesso fa la differenza. Beh, Matt Berninger fa la differenza, in ogni singola strofa o ritornello che canta.
Ogni brano di questo High Violet vede i The National affrontare le differenti emozioni umane, e così come Terrible Love parla di tentazione e di peccato, Sorrow parla del dispiacere e della tristezza nel soffrire per qualcuno, con un testo da lacrime agli occhi.
Afraid Of Everyone parla della paura, abbastanza comune, di ciò che ci viene somministrato da giornali, radio e televisioni, e del timore di crescere senza una propria identità.
Bloodbuzz Ohio è un pezzo strepitoso, che evoca immagini e sensazioni uniche, e che invoglia a prendere uno zaino ed uscire di casa a godersi il sole estivo.
Le canzoni si susseguono come se fossero ognuna parte di una sinfonia unica, come se ogni pezzo fosse una porta da attraversare per scoprire cosa si nasconde dall’altra parte.
C’è anche il tempo per un tributo: in England Matt Berninger narra di estati piovose passate in quel di Londra, in un pezzo lento ma molto coinvolgente.
Non vorrei essere troppo influenzato dai miei gusti personali, ma questo album è sicuramente uno dei migliori che ascolteremo in quest’anno. E in quello successivo. E in quello dopo ancora.
Non si sono discostati troppo dallo stile e dal sound del precedente Boxer, e non sono caduti nel cliché del pop, della canzone sempliciotta e radiofonica.
Nessuna delle canzoni di questo album è un riempimento, nessuna è inferiore alla precedente. Non ci sono difetti, non ci sono pecche. Non c’è nulla da appuntare.
Su brani come Vanderlyle Crybaby Geeks non c’è nulla da dire, c’è semplicemente da ascoltarle e ringraziare i The National per ciò che fanno per la musica.

Tracklist:
1. Terrible Love
2. Sorrow
3. Anyone’s Ghost
4. Little Faith
5. Afraid Of Everyone
6. Bloodbuzz Ohio
7. Lemonworld
8. Runaway
9. Conversation 16
10. England
11. Vanderlyle Crybaby Geeks

Francesco Ruggeri

giovedì 20 maggio 2010

Black Rebel Motorcycle Club @ Magazzini Generali, Milano 07/05/2010

Ogni volta che vedo dal vivo i Black Rebel Motorcycle Club ho la sensazione di assistere alla performance della band più cazzuta e “cool” esistente sulla faccia della terra.
Questa impressione l’ho avuta anche in occasione della loro ultima apparizione in territorio Italiano, il 7 maggio scorso in quel dei Magazzini Generali a Milano.
Il classico traffico mi fa perdere la band di supporto, i Newyorchesi Zaza, ma quando arrivo il locale è praticamente vuoto.
Nell’arco di mezz’ora però i Magazzini si riempiono all’inverosimile, rasentando il sold out.
Peter Hayes, Robert Turner e il nuovo acquisto Leah Shapiro salgono sul palco e senza tanti fronzoli, come di consueto, attaccano subito con la potentissima e velenosa War Machine, pezzo tratto dal loro ultimo sforzo in studio: Beat The Devil’s Tattoo.
Senza un attimo di pausa si passa ad un secondo pezzo tratto dall’ultimo album: Mama Taught Me Better, che vede destreggiarsi in maniera pregevole Leah Shapiro alla batteria, cosa che stupisce il sottoscritto e tanti altri presenti ai Magazzini.
Ma al terzo brano arriva una sorpresa, una di quelle che non ti aspetteresti mai: Red Eyes And Tears, tratta dal loro album d’esordio omonimo, ed eseguita in maniera impeccabile.
Il primo singolo Beat The Devil’s Tattoo e Bad Blood chiudono una prima parte di concerto dedicata ai brani tratti dal nuovo album che , come spesso accade, rispetto all’album prendono tutta un’altra dimensione quando vengono suonati dal vivo.
L’immancabile Ain’t No Easy Way fa cantare tutti i presenti, con Peter Hayes in forma vocale davvero smagliante.
La complicata dinamica tra i due leader e cantanti del gruppo trova sul palco una sua equilibratura perfetta, nella quale Robert è lo showoff, lo spaccone, mentre Peter è il quieto e l’imbronciato. La differenza di carattere è marcatissima, ma la loro combinazione li rende una coppia che sul palco si amalgama alla perfezione.
Non c’è tempo di rilassarsi, o di tirare il fiato, i BRMC sparano un pezzo dopo l’altro, tra cui la coppia Berlin e Weapon Of Choice, tratti dal poco fortunato Baby 81.
Un classico momento lento, presente in tutti i live dei BRMC, vede Robert al piano, mentre suona un tristissimo b-side tratto da una poesia di Edgar Allan Poe, Annabel Lee.
Mentre il pubblico si asciuga le lacrime ecco arrivare una delle canzoni più attese: Whatever Happened To My Rock’n’Roll che mette a serio rischio l’integrità del locale.
Leah Shapiro e Peter Hayes si congedano, lasciando solo Robert Turner sul palco mentre imbraccia una chitarra acustica per un altro b-side fantastico: Mercy, tratto dalle Howl Sessions.
Ma da qui in poi è una discesa verso l’inferno con Conscience Killer, una spaventosa versione di Six Barrel Shotgun e una bruciante Spread Your Love.
Il concerto sembra finito, ma i BRMC trovano il tempo per un secondo encore, ricevendo uno scroscio infinito di applausi.
La cattivissima linea di basso di Stop, forse la loro canzone più famosa, da l’inizio ad un secondo encore incredibilmente intenso ed emozionante. C’è il tempo per uno dei pezzi meglio riusciti di Beat The Devil’s Tattoo, Shadow’s Keeper, che dal vivo è vibrante e sinistra come poche altre canzoni dei BRMC.
Peter Hayes annuncia che avrebbero voluto suonare ancora, ma che il locale si deve trasformare in una discoteca e che quindi devono smettere.
E’ un peccato doverli interrompere, dover fermare un live ben riuscito come questo, una band che sembra aver trovato la propria strada dopo aver seguito un percorso a dir poco tortuoso.
Come ultimo sussulto per il pubblico in adorazione, tirano fuori dal cappello Open Invitation, ghost track in Howl.
Le ultime note escono dall’amplificatore della chitarra in feedback e Robert rivolge al pubblico un sentitissimo ringraziamento. Dio vi benedica, dice.
No, Robert, Dio benedica voi.


Setlist:

- War Machine
- Mama Taught Me Better
- Red Eyes And Tears
- Beat The Devil’s Tattoo
- Bad Blood
- Ain’t No Easy Way
- Aya
- Berlin
- Weapon Of Choice
- Annabel Lee
- Whatever Happened To My Rock’n’Roll
- Mercy
- Conscience Killer
- Six Barrel Shotgun
- Spread Your Love
- Stop
- Shadow’s Keeper
- Open Invitation

Francesco Ruggeri

mercoledì 19 maggio 2010

Band Of Horses - Infinite Arms



Immaginate un viaggio in America. Un viaggio che ripercorra le radici di un popolo e di un paese così eterogeneo e complicato. Un viaggio nel quale si assaporano sapori, si vedono luoghi e si ascoltano suoni che rappresentano l’America moderna.
Questo viaggio lo si può compiere semplicemente ascoltando il nuovo lavoro dei Band Of Horses, giunti al loro terzo album, e freschi di “salto” in una major.
Spesso il passaggio da un etichetta indipendente (in questo caso la storica Sub Pop) ad una major è sempre tragico, nel senso che diventano obbligatori compromessi contrattuali e musicali, atti a compiacere un pubblico più ampio.
In questo caso però i Band Of Horses non sono cambiati, non hanno snaturato niente del loro sound tipicamente Southern Rock e sono addirittura riusciti a racchiudere in un disco tutto ciò che di buono avevano mostrato nei precedenti due lavori in studio.
Questo Infinite Arms inizia con Factory, canzone che riprende le atmosfere sognanti e delicate di tanti altri brani di Ben Bridwell & Co.
Il primo sussulto è da attribuire alla traccia numero tre, ovvero Laredo. Una canzone allegra, spensierata e con un ritmo assolutamente irresistibile. Ben Bridwell narra di Laredo, di un viaggio nel Texas, e di una ragazza che l’ha lasciato in riva ad un lago.
Le canzoni dei Band Of Horses fanno spesso riferimento a momenti di vita vissuta dei componenti della band, magari storie nate proprio sul tour bus che spesso li porta in giro per tutti gli Stati Uniti. Ed è proprio questa la loro dimensione preferita, poter girare il mondo e portare la loro musica ad un pubblico più ampio e vario.
Canzoni come Compliments e Blue Beard sembrano state scritte appunto per raggiungere un target a loro precedentemente sconosciuto.
Ma i barbuti di Seattle non si sono assolutamente persi nei meandri insidiosi del pop-rock, anzi. On My Way Back Home è la summa del talento evocativo e musicale dei Band Of Horses, che riescono sempre a creare qualcosa che non sarà nuovo, ma sempre attuale e fresco.
Ennesimo esempio di questa (personalissima) teoria è la traccia numero sette: Dilly. Un inizio di tastiere ben ritmato nasconde una canzone con un testo malinconico, nella quale le chitarre di Bridwell e Tyler Ramsey si intrecciano, narrando una dolorosa separazione.
Ci sono anche momenti di splendida e rilassatissima riflessione: Infinite Arms e Evening Kitchen vedono la voce caratteristica di Ben Bridwell in primo piano, mostrandoci un lato musicale che i BoH hanno nelle loro corde, ma che non mostrano spesso.
C’è spazio per una canzone canonicamente rock: Northwest Apartment che seppur lontanissima dal capolavoro Is There A Ghost del precedente album Cease To Begin, si dimostra un pezzo di grande intensità ed un perfetto preludio allo splendido brano conclusivo.
Bartles + James è perfetta per chiudere in bellezza questo album, che vede i Band Of Horses fare per la prima volta i conti con il dilemma della notorietà.
La cosa importante che questo Infinite Arms mette in chiaro è che questi ragazzi di Seattle con il folk e il country nel cuore non si sono venduti, anzi, sono migliorati in tutto ciò che poteva essere ritoccato, uscendone con un sound più marcato e deciso e con un album che non posso che definire splendido.


Tracklist:
1. Factory
2. Compliments
3. Laredo
4. Blue Beard
5. On My Way Back Home
6. Infinite Arms
7. Dilly
8. Evening Kitchen
9. Older
10. Trudy
11. Northwest Apartment
12. Bartles + James


Francesco Ruggeri

martedì 11 maggio 2010

These New Puritans - Hidden


Se vi dicessi che il nuovo album dei These New Puritans è già adesso un serio candidato per album dell’anno, mi prendereste sul serio?
Certo che no. Non mi prenderei sul serio neanch’io, eppure è così.
Portando ad un livello esasperato la sperimentazione, i TNP si erano già distinti un paio di anni fa con l’ottimo Beat Pyramid.
Ma Hidden è un'altra cosa. Un altro album. Un altro posto ed un altro luogo, dove quasi nessuno osa spingersi.
Ascoltandolo si prova un continuo senso di pericolo e di intimidazione, come se l’album si ponesse in maniera minacciosa rispetto all’ascoltatore. Suoni di vetri infranti, spade sguainate e tamburi di guerra si fondono con beat elettronici veloci e potenti.
Hidden è un affascinante lavoro compositivo, che comincia con Time Xone, un corto preludio orchestrale che racchiude però in sé tutta l’essenza sperimentale dell’album.
Non ci viene lasciato il tempo di abituarci agli ottoni soffici e vellutati, che We Want War, primo singolo estratto, inizia con prepotenza la sua cavalcata di sette minuti e ventiquattro secondi, all’interno della quale i TNPS sguainano tutte le loro armi: ritmi incalzanti, suoni elettronici, suoni di lame sguainate e tamburi da guerra giapponesi. Un pezzo sconvolgente per la sua efficacia, per il coinvolgimento che provoca in chi lo ascolta e per la potenza scaturita.
Il terzo brano, Three Thousand, vede in primo piano la batteria di George Barnett, in grado di tenere ritmi velocissimi e complicati.
Mentre Three Thousand finisce riprendendo la melodia di Time Xone, si capisce già che questo sarà un album epico, destinato a scomodare paragoni eccellenti e nomi importanti, ma i TNPS, seppur ispirandosi ad una ben precisa corrente musicale, hanno creato un mix unico, che difficilmente nella musica contemporanea si era visto.
Attack Music, secondo singolo estratto da Hidden, è la summa dell’impegno profuso dai TNPS: c’è l’elettronica, c’è il rock, c’è l’avanguardia, ci sono ottoni e violini, ma soprattutto c’è pathos e c’è emozione. Questa canzone non sarà la migliore dell’album, ma è sicuramente quella sulla quale Jack Barnett e soci hanno lavorato di più.
Orion, la settima traccia dell’album, è un altro pezzo di quelli che fanno accapponare la pelle, sia per la sua intensità, che per la sua oggettiva bellezza artistica. La melodia acida e nervosa è accompagnata da un coro che si rivela allo stesso tempo inquietante e rassicurante.
Canticle, un semplice intermezzo di un minuto e dieci secondi, è in realtà un preludio per l’ultimo atto.
Drum Courts – Where Corals Lie sembra un pezzo creato appositamente per il cinema. E’ facile immaginarsi una battaglia tra due immensi eserciti, mentre i tamburi riecheggiano per tutto il campo di battaglia. E’ un ennesima dimostrazione di come la musica dei TNPS possa adattarsi a diversi ambiti artistici. Jack Barnett sussurra le parole della canzone, quasi come se non volesse rovinare una creatura già di per sé perfetta.
L’album si conclude con 5, un brano senza testo che mette in primo piano gli ottoni, con le loro note insistentemente presenti in quasi tutte le tracce di Hidden.
Seppur giovanissimi, i TNP hanno le idee ben chiare in testa: in questo Hidden non c’è la ricerca del singolo, del compiacimento, dell’idea di doversi vendere al pubblico, questa è musica scritta ed eseguita per il semplice piacere di creare arte.
Alla fine Hidden è proprio questo. Un’opera d’arte.


Francesco Ruggeri