lunedì 13 settembre 2010

Mumford & Sons + Fanfarlo @ Teatro dell'Arte, Triennale di Milano

Splendido.
Emozionante.
Energico.
Malinconico.
Esplosivo…
E potrei continuare.
Per descrivere il concerto dei Mumford & Sons al teatro dell’Arte di Milano, dovrei svuotare la mia riserva di aggettivi. Positivi, ovviamente.
In quello che, probabilmente, è stato il loro ultimo concerto in terra italica prima del nuovo album, Marcus Mumford e soci hanno fugato ogni dubbio sulla loro consistenza e sulle loro capacità di esibirsi dal vivo.
Il pubblico, numeroso e soprattutto caloroso, ha acclamato i quattro giovani londinesi per tutta la durata del concerto, dimostrando un attaccamento ed un adorazione davvero sorprendente. Così sorprendente da colpire Marcus Mumford, che credo mai si sarebbe aspettato un accoglienza così trionfale.
Ad aprire la serata si sono esibiti i sempre bravi Fanfarlo, che nel poco tempo a loro concesso hanno scaldato il pubblico, con pezzi splendidi come The Walls Are Coming Down, Harold T.Wilkins e Luna.
I Fanfarlo lasciano il palco sommersi dagli applausi, dimostrando di aver fatto colpo anche su chi era venuto solo per i loro (più famosi) concittadini.
Poco dopo è il turno dei Mumford & Sons, che attaccano subito con Sigh No More, traccia iniziale dell’omonimo album. La voce di Marcus è quanto di meglio si possa ascoltare: forte, profonda, ma anche leggera e decisa. Una meraviglia.
Ben, Ted e Winston lo spalleggiano in maniera impeccabile, a prova del fatto che sono una band solida, e non un background del comunque carismatico Marcus.
Seguono Awake My Soul e Roll Away Your Stone, pezzi che dal vivo suonano splendidamente, immergendo il pubblico in un atmosfera piacevolmente famigliare.
E’ Ben, il tastierista, a rompere il ghiaccio con il pubblico, addirittura improvvisando alcune frasi in italiano, presto imitato da Marcus e Winston.
Per chi sperava, come il sottoscritto, di poter ascoltare qualche pezzo nuovo, o magari qualche b-side, la band ha eseguito due canzoni che non fanno parte dell’album: Nothing Is Written e Lover Of The Light, intervallate dalla canzone più attesa della serata, Little Lion Man.
La loro esecuzione non smentisce la mia convinzione che si tratti di un pezzo di classe cristallina. Raramente ho assistito ad un pubblico reagire così ad una canzone, con tale entusiasmo, con tale foga e partecipazione. Le sensazioni che questo brano suscita vanno aldilà della mera esecuzione del brano stesso, comunque suonato impeccabilmente.
Dopo una dose immensa di applausi i Mumford & Sons rallentano, proponendo pezzi come Timshel e Thistle & Weeds, seguiti immediatamente da The Cave, altro brano tra i preferiti del pubblico.
Marcus e gli altri sembrano divertirsi, sembrano godersi la serata e sembrano sinceramente stupiti di come il pubblico canti insieme a loro.
Dust Bowl Dance, con Marcus alla batteria, chiude la prima parte del concerto che, a questo punto, speri non finisca mai.
Dopo la breve pausa la band annuncia che ci sarà tempo solo per una canzone, e la loro scelta (azzeccata) ricade su White Blank Page.
La loro canzone più malinconica risulta però essere la più “partecipata” dopo Little Lion Man, con tutto il pubblico a cantare parola dopo parola con i quattro menestrelli.
White Blank Page finisce, e con essa il concerto, durato poco più di un ora.
Tra i detrattori dei Mumford & Sons c’è chi dice che pecchino di originalità, e di inventiva.
Io penso l’esatto contrario.
Penso che siano, insieme a band come Fleet Foxes, Bon Iver e Grizzly Bear, la corrente musicale più interessante degli ultimi anni.
Non fanno country-folk perché è di moda, non lo fanno perché è facile e non lo fanno per assecondare i dirigenti dell’etichetta.
Lo fanno perché sono maledettamente bravi nel farlo.
E io continuo a svuotare la mia riserva di aggettivi.
Profondo.
Vivace.
Esaltante.
Grandioso.

Francesco Ruggeri

lunedì 12 luglio 2010

The Morning Benders - Big Echo


Quando metti in loop una canzone, significa che ti ha colpito.
Quando metti in loop un’album intero, vuol dire che è un lavoro con i fiocchi.
Quando nell’arco di due mesi hai ascoltato quest’album 37 volte, allora capisci che si tratta di qualcosa diverso dal solito.
I Morning Benders hanno letteralmente invaso le mie playlist, al punto che quasi giornalmente ascolto il loro nuovo album, Big Echo.
Nati sotto il sole della California, baciati dal talento e osannati da buona parte della stampa specializzata ben prima di questo nuovo album, i Morning Benders avevano già fatto rizzare le orecchie un paio di anni fa, con il loro esordio Talking Through Tin Cans.
Ma è grazie a questo Big Echo, prodotto da Chris Taylor dei Grizzly Bear, che Chris Chu e compagni sono finiti sulla bocca (e sui blog) di tutti.
La traccia che letteralmente trascina l’album è la prima, ovvero Excuses. Echi di Beach Boys, armonie vocali à-la Grizzly Bear e una parte orchestrale degna degli Arcade Fire. Voilà, eccovi servita la canzone dell’anno.
A Excuses segue Promises, è un irresistibile pezzo pop-rock sincopato, all’interno del quale trova spazio la leggerezza e il respiro classico dei Grizzly Bear.
L’atmosfera “Big Sur” avvolge Wet Cement, altro pezzo che deve essere stato scritto sulla spiaggia, in una pausa tra un onda e quella successiva.
Big Echo è un album di facilissimo ascolto, di compagnia, di viaggio e suona come la colonna sonora perfetta da mettere in macchina mentre ci si dirige al mare, e sembra una splendida compilation di canzoni estive prese da tante stili diversi provenienti dalle “ere” musicali più differenti.
Le influenze sono svariate: la costa Californiana ha il suo peso nel sound di Big Echo, ma ad essa va aggiunta tutta la surf-music classica degli anni ’50 e ’60. Allo stesso tempo è presente la modernità, la freschezza e l’attualità.
Cold War, pezzo brevissimo di un minuto e quaranta secondi, è un inno alla spensieratezza e alla solarità, qualità delle quali tutto Big Echo è colmo.
All Day Light è forse il pezzo più rock di tutto il disco, senza però mettere da parte la componente atmosferica e riverberante degli altri pezzi.
E, a proposito di atmosfera, Stitches è da brividi: una canzone languida, malinconica, ma che cresce fino a diventare quasi rabbiosa, pur restando comoda nella sua aura di compostezza e di eleganza. Insomma, un pezzo magnifico.
L’album si conclude con Sleeping In, una sorta di cantico dedicato all’estate e a ciò che rappresenta, alla sua solennità e all’armonia che riesce a donare.
I Morning Benders hanno realizzato un album che mi riesce difficile non definire perfetto, almeno nel suo intento: prende tutto ciò che di buono esiste nella musica indie e pop di oggi, e lo miscela in chiave moderna con la musica pop del passato, tenendo come tema principale le calure estive e i movimenti soavi delle onde.
Peccato che noi non viviamo in California, ma grazie a questo disco, la possiamo almeno sognare.

Tracklist:
1. Excuses
2. Promises
3. Wet Cement
4. Cold War
5. Pleasure Sighs
6. Hand Me Downs
7. Mason Jar
8. All Day All Light
9. Stitches
10. Sleeping In

Francesco Ruggeri

giovedì 24 giugno 2010

The Temper Trap @ Alcatraz, Milano 16-06-2010

Di questa band ne sentiremo parlare ancora per molto tempo.
Era questa la sensazione che aleggiava all’Alcatraz dopo il concerto dei Temper Trap di ieri sera. Una band in ascesa vorticosa, che ormai riesce a padroneggiare il palco e l’esecuzione del proprio repertorio come chi fa questo mestiere da vent’anni.
Il gruppo spalla, che per una volta non ha deluso, erano i The Kissaway Trail, gruppo danese di giovanissimi, che cerca di seguire le orme di altri gruppi compatrioti come i Carpark North, Mew e Raveonettes, ma che ha nella fusione dei suoni simili ai Beach Boys e Sonic Youth la loro anima musicale. Poco più di mezz’ora per farsi conoscere, ma il pubblico ha apprezzato ampiamente la loro performance.
Dopo un attesa non indifferente arrivano sul palco gli australiani capitanati da Dougy Mandagi con l’aggiunta dello strumentista da tour Joseph Greer.
Senza tanti fronzoli attaccano con un intro strumentale seguita da Rest.Il pubblico risponde con un ovazione alla prima canzone che, pur non essendo un singolo, è uno degli episodi meglio riusciti del loro album d’esordio Conditions.
Fader, singolo in rotazione sia in TV che in radio, fa saltare tutto il pubblico presente grazie al suo ritmo contagioso e al suo ritornello ululato. Dougy Mandagi dimostra che la sua voce falsettata non è un risultato da studio, ma è autentica ed emozionante proprio come su disco.
Dopo la parentesi lenta di Fools, i Temper Trap suonano la superba Down River, una canzone fresca, estiva e sinceramente irresistibile che con la successiva Love Lost forma una coppia di pezzi eseguita in maniera impeccabile dalla band di Melbourne.
Man mano che il concerto continua i Temper Trap prendono confidenza con il pubblico e con se stessi, dimostrandosi musicalmente più maturi di quanto sono in realtà.Soldier On è la dimostrazione di questa maturità: un pezzo lungo, lento ma da brividi sia per interpretazione che per qualità. L’applauso del pubblico in adorazione alla fine di Soldier On è la dimostrazione di quanto le loro canzoni penetrino nei cuori dei loro (giovani) fan.
Subito dopo si giocano la loro carta migliore: il singolone spacca-classifiche Sweet Disposition, eseguito alla perfezione. Il pubblico dell’Alcatraz è in visibilio, e non si accorge di un piccolo problema di mixaggio; nel ritornello la potente voce del buon Mandagi copriva tutta la band!
A parte questo piccolo inconveniente, che comunque non ha intaccato la qualità della performance, il concerto si avvia verso la sua conclusione, con Resurrection e Drum Song a chiudere la prima parte.Acclamati a gran voce dal pubblico, in particolare il loro chitarrista Lorenzo Sillitto, i Temper Trap tornano sul palco, e Lorenzo spende addirittura qualche parola in italiano, guadagnandosi un vero e proprio tripudio di applausi.
Dougy Mandagi annuncia che suoneranno ancora due pezzi, di cui un inedito: Rabbit Hole. Un pezzo che non si discosta dallo stile del loro primo album, Conditions, ma comunque con spunti interessanti per il loro prossimo futuro.
La spettacolosa e coinvolgente Science Of Fear chiude questo concerto milanese dei Temper Trap. Seppur corto (un’ora e venti minuti, ma hanno suonato tutto l’album), questo concerto ha dimostrato appieno come i Temper Trap siano un gruppo destinato a calcare questi palchi, e palchi ben più importanti, per molto tempo a venire.

giovedì 3 giugno 2010

Blood Red Shoes - Fire Like This


Prendete un paio di ragazzi inglesi. Fategli ascoltare i Nirvana per tutta la loro adolescenza. Dategli una città noiosa e stantia come Brighton, England. E infine circondateli di loro coetanei che sanno solo parlare di calcio e risse. A questo punto l’unico sbocco che questi ragazzi possono avere, a parte l’alcolismo, è la musica.
E, fortunatamente, è proprio questa la strada scelta da Laura-Mary Carter e Steve Ansell, ovvero i Blood Red Shoes.
Con il precedente Box Of Secrets erano riusciti a crearsi una certa reputazione nell’ambiente indie Britannico, anche grazie a pezzi strepitosi come It’s Getting Boring By The Sea e I Wish I Was Someone Better.
Ora, due anni dopo Box Of Secrets, ritornano con questo nuovo Fire Like This, e fin dalle prime note le loro intenzioni sembrano bellicose: Don’t Ask inizia senza neanche lasciare il tempo di mettersi le cuffie sulle orecchie.
La velocità e l’immediatezza dei loro pezzi è sempre stato uno dei loro marchi di fabbrica, e in questo inizio di Fire Like This, i BRS non sembrano deludere.
Infatti la successiva Light It Up si presenta con un riff irresistibile di Laura-Mary Carter che infiamma un pezzo da ascoltare con il volume al massimo.
C’è da notare che rispetto all’album di esordio la sua tecnica con la chitarra ha subito dei notevoli miglioramenti e, a parte la già citata Light It Up, lo si può sentire in pezzi come Count Me Out e Heartsink.
Keeping It Close è uno di quei brani dove i BRS sembrano avere ”urgenza” di suonare, proponendo una canzone senza fronzoli, senza lustrini e melodie da checche radiofoniche.
Allo stesso modo One More Empty Chair è nel classico stile BRS: veloce, immediata e spaccatimpani.
Un punto sicuramente a favore di ogni singolo pezzo dei BRS è la batteria di Steve Ansell, che reputo uno dei migliori batteristi in circolazione, non solo per i ritmi che riesce a tenere, ma soprattutto per come riesce a cantare e a suonare così forte contemporaneamente.
Le voci di Laura-Mary e di Steve sembrano essere state concepite per cantare insieme, e la loro chimica su disco è innegabile: la riprova è Colours Fade, traccia conclusiva di questo Fire Like This, che è il pezzo migliore che abbiano mai fatto. Sette minuti di grunge, punk e psichedelia uniti in un miscuglio al limite della perfezione stilistica. Una canzone sorprendente, che mi lascia ancora più fiducioso nei confronti di questo giovanissimo gruppo.
In conclusione Fire Like This non è strutturalmente diverso dal loro primo Lp, ma suona semplicemente meglio, in ogni singolo aspetto. Non sarà mai considerato un album che ha segnato il suo periodo, ma è decisamente divertente e si fa ascoltare per tutti i suoi 37 minuti di passione.
Promossi.
A pieni voti.

giovedì 27 maggio 2010

A summer song.



How cool is this?

The National - High Violet



I The National hanno raggiunto con il loro precedente album, Boxer, un successo inaspettato ma assolutamente meritato.
Forti di quel successo e del loro innegabile talento nel creare canzoni pregne di malinconica emozione, questi cinque ragazzi del Cincinnati, ma adottati da New York, hanno pubblicato il largamente atteso High Violet.
Ma come si fa a dare un seguito ad un album che la maggior parte della stampa musicale ha definito perfetto e che il pubblico ha (giustamente) premiato con tanta ammirazione?
Ecco come: rinchiudendosi in studio per rielaborare le fortunate atmosfere di Boxer ma uscendone con un suono ancora più polveroso, con testi più introspettivi e con canzoni cariche di romanticismo.
Terrible Love, il primo pezzo di High Violet, inizia con le chitarre dei fratelli Dessner in primo piano, ma è la voce profonda di Matt Berninger a dare una scossa di adrenalina. Il modo in cui narra le storie dei propri personaggi, come ne sottolinea le emozioni, è davvero unico.
Non ha una voce cristallina, ma è come si interpreta una canzone che spesso fa la differenza. Beh, Matt Berninger fa la differenza, in ogni singola strofa o ritornello che canta.
Ogni brano di questo High Violet vede i The National affrontare le differenti emozioni umane, e così come Terrible Love parla di tentazione e di peccato, Sorrow parla del dispiacere e della tristezza nel soffrire per qualcuno, con un testo da lacrime agli occhi.
Afraid Of Everyone parla della paura, abbastanza comune, di ciò che ci viene somministrato da giornali, radio e televisioni, e del timore di crescere senza una propria identità.
Bloodbuzz Ohio è un pezzo strepitoso, che evoca immagini e sensazioni uniche, e che invoglia a prendere uno zaino ed uscire di casa a godersi il sole estivo.
Le canzoni si susseguono come se fossero ognuna parte di una sinfonia unica, come se ogni pezzo fosse una porta da attraversare per scoprire cosa si nasconde dall’altra parte.
C’è anche il tempo per un tributo: in England Matt Berninger narra di estati piovose passate in quel di Londra, in un pezzo lento ma molto coinvolgente.
Non vorrei essere troppo influenzato dai miei gusti personali, ma questo album è sicuramente uno dei migliori che ascolteremo in quest’anno. E in quello successivo. E in quello dopo ancora.
Non si sono discostati troppo dallo stile e dal sound del precedente Boxer, e non sono caduti nel cliché del pop, della canzone sempliciotta e radiofonica.
Nessuna delle canzoni di questo album è un riempimento, nessuna è inferiore alla precedente. Non ci sono difetti, non ci sono pecche. Non c’è nulla da appuntare.
Su brani come Vanderlyle Crybaby Geeks non c’è nulla da dire, c’è semplicemente da ascoltarle e ringraziare i The National per ciò che fanno per la musica.

Tracklist:
1. Terrible Love
2. Sorrow
3. Anyone’s Ghost
4. Little Faith
5. Afraid Of Everyone
6. Bloodbuzz Ohio
7. Lemonworld
8. Runaway
9. Conversation 16
10. England
11. Vanderlyle Crybaby Geeks

Francesco Ruggeri

giovedì 20 maggio 2010

Black Rebel Motorcycle Club @ Magazzini Generali, Milano 07/05/2010

Ogni volta che vedo dal vivo i Black Rebel Motorcycle Club ho la sensazione di assistere alla performance della band più cazzuta e “cool” esistente sulla faccia della terra.
Questa impressione l’ho avuta anche in occasione della loro ultima apparizione in territorio Italiano, il 7 maggio scorso in quel dei Magazzini Generali a Milano.
Il classico traffico mi fa perdere la band di supporto, i Newyorchesi Zaza, ma quando arrivo il locale è praticamente vuoto.
Nell’arco di mezz’ora però i Magazzini si riempiono all’inverosimile, rasentando il sold out.
Peter Hayes, Robert Turner e il nuovo acquisto Leah Shapiro salgono sul palco e senza tanti fronzoli, come di consueto, attaccano subito con la potentissima e velenosa War Machine, pezzo tratto dal loro ultimo sforzo in studio: Beat The Devil’s Tattoo.
Senza un attimo di pausa si passa ad un secondo pezzo tratto dall’ultimo album: Mama Taught Me Better, che vede destreggiarsi in maniera pregevole Leah Shapiro alla batteria, cosa che stupisce il sottoscritto e tanti altri presenti ai Magazzini.
Ma al terzo brano arriva una sorpresa, una di quelle che non ti aspetteresti mai: Red Eyes And Tears, tratta dal loro album d’esordio omonimo, ed eseguita in maniera impeccabile.
Il primo singolo Beat The Devil’s Tattoo e Bad Blood chiudono una prima parte di concerto dedicata ai brani tratti dal nuovo album che , come spesso accade, rispetto all’album prendono tutta un’altra dimensione quando vengono suonati dal vivo.
L’immancabile Ain’t No Easy Way fa cantare tutti i presenti, con Peter Hayes in forma vocale davvero smagliante.
La complicata dinamica tra i due leader e cantanti del gruppo trova sul palco una sua equilibratura perfetta, nella quale Robert è lo showoff, lo spaccone, mentre Peter è il quieto e l’imbronciato. La differenza di carattere è marcatissima, ma la loro combinazione li rende una coppia che sul palco si amalgama alla perfezione.
Non c’è tempo di rilassarsi, o di tirare il fiato, i BRMC sparano un pezzo dopo l’altro, tra cui la coppia Berlin e Weapon Of Choice, tratti dal poco fortunato Baby 81.
Un classico momento lento, presente in tutti i live dei BRMC, vede Robert al piano, mentre suona un tristissimo b-side tratto da una poesia di Edgar Allan Poe, Annabel Lee.
Mentre il pubblico si asciuga le lacrime ecco arrivare una delle canzoni più attese: Whatever Happened To My Rock’n’Roll che mette a serio rischio l’integrità del locale.
Leah Shapiro e Peter Hayes si congedano, lasciando solo Robert Turner sul palco mentre imbraccia una chitarra acustica per un altro b-side fantastico: Mercy, tratto dalle Howl Sessions.
Ma da qui in poi è una discesa verso l’inferno con Conscience Killer, una spaventosa versione di Six Barrel Shotgun e una bruciante Spread Your Love.
Il concerto sembra finito, ma i BRMC trovano il tempo per un secondo encore, ricevendo uno scroscio infinito di applausi.
La cattivissima linea di basso di Stop, forse la loro canzone più famosa, da l’inizio ad un secondo encore incredibilmente intenso ed emozionante. C’è il tempo per uno dei pezzi meglio riusciti di Beat The Devil’s Tattoo, Shadow’s Keeper, che dal vivo è vibrante e sinistra come poche altre canzoni dei BRMC.
Peter Hayes annuncia che avrebbero voluto suonare ancora, ma che il locale si deve trasformare in una discoteca e che quindi devono smettere.
E’ un peccato doverli interrompere, dover fermare un live ben riuscito come questo, una band che sembra aver trovato la propria strada dopo aver seguito un percorso a dir poco tortuoso.
Come ultimo sussulto per il pubblico in adorazione, tirano fuori dal cappello Open Invitation, ghost track in Howl.
Le ultime note escono dall’amplificatore della chitarra in feedback e Robert rivolge al pubblico un sentitissimo ringraziamento. Dio vi benedica, dice.
No, Robert, Dio benedica voi.


Setlist:

- War Machine
- Mama Taught Me Better
- Red Eyes And Tears
- Beat The Devil’s Tattoo
- Bad Blood
- Ain’t No Easy Way
- Aya
- Berlin
- Weapon Of Choice
- Annabel Lee
- Whatever Happened To My Rock’n’Roll
- Mercy
- Conscience Killer
- Six Barrel Shotgun
- Spread Your Love
- Stop
- Shadow’s Keeper
- Open Invitation

Francesco Ruggeri